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Djokovic-Federer, finale senza tempo

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loza on 7 luglio 2014 - 15:58 in Sport ITA, Tennis

“Oggi ho comprato La Repubblica”

“E chissene….”

“No no, fermo lì. Ti spiego. Ho comprato La Repubblica per leggere un solo articolo. Di sport”

“Un solo articolo? Ma tu sei…”

“Ok, ancora una volta. Non insultarmi. Ho speso dei soldi per leggermi le considerazioni del Maestro sulla finale di Wimbledon, il suo racconto sulla splendida sfida tra Nole e Roger”

“Ah ok, allora fammi un po’ leggere…”

“Ecco qua, Gianni Clerici tutto per voi. La Repubblica pagina 43”

 

 

Ha vinto Djokovic, alla fine di quasi quattro ore. Ha vinto Djokovic perché, pur nel suo fascino che ispirerà qualche favola, la partita non è stata purtroppo simile a una fiction, cioè a una finzione, in cui il giocatore più anziano, che fu il primo nell’ultimo decennio, si rifiutava di abbandonare la sua immagine vincente e, con drammatica testardaggine, cercava di riproporla, riuscendoci alla fine. Ha vinto Djokovic, che tra sei anni avrà l’età che ha oggi Federer, e magari starà ancora giocando, mentre papà Federer racconterà, spero al camino, la storia di un pomeriggio del luglio 2014, nel quale è stato vicino alla diciottesima vittoria nei tornei detti del Grande Slam, e lo ascolteranno le gemelle che avevano presenziato, senza ben capire, sedute su una sorta di cornice metallica, che delimita una grande finestra chiamato Falco.

Ha vinto Djokovic, forse con giustizia per un grande che aveva perduto le ultime tre finali Slam, e che nella lunghissima vicenda ha finito per dimostrare, come ci si attendeva, la condizione tipica di un giovane, a confronto no si dice di un anziano, e nemmeno di un vecchio, ma insomma di qualcuno che sarebbe stato battuto, sino a ieri, in tre o quattro set dal se stesso degli anni migliori. Il Federer visto nel corso del torneo si era fatto ammirare per una ritrovata autorità, che l’aveva più del solito condotto a rete, sull’erba certo più propizia al suo diritto di controbalzo, ai colpi aerei, e addirittura al rovescio a una mano, che pareva ormai spesso in cantiere. Per contro il nuovo leader Djokovic era parso incerto in più di un’occasione, contro il vecchio volleatore Stepanek, contro un buon tennista per altro dimenticabile come Cilic, infine nella semifinale contro Dimitrov, risolta da un discutibile tiebreak.

I sostenitori dell’happy end avevano tra l’altro ricordato che nei confronti diretti non solo Federer conduceva tuttora per 18 vittorie a 16 ma, dopo una serie negativa, aveva però ritrovato l’ultimo successo a Montecarlo, e infine che la sua preparazione era stata specialmente orientata ai prati, con una collaborazione ancor prima umana, ma forse per questo di maggior valore, di Stefan Edberg, un giardiniere come pochi. Molte di simili premesse mi hanno permesso di assistere oggi ad una finale tra le più emozionanti di quante ho ammirate negli ultimi sessant’anni di vacanze a Wimbledon. Roger ha dimostrato sin dal primo set che l’atteggiamento annunciato sin dal suo primo incontro non era affatto mutato, mostrando a tutti che il tennis di 10-15 anni fa, il tennis del serve and volley, non era ancora morto ma, con un grande talento, si poteva ancora praticarlo, anche con dei ribattitori del livello di Djokovic. Non potevo io stesso trattenermi da un minimo di applauso, rigorosamente vietato in tribuna stampa, imitando i fragorosi scrosci che giungevano da ogni ordine di posti, addirittura dalla tribuna in cui sedevano il principe William e Signora, e il Duca di Kent, 90enne presidente del Wimbledon Lawn Tennis Club.

In un primo set nel quale la pur efficiente battuta di Federer era stata, almeno in parte, contenuta dal rovescio bimane di Djokovic, lo svizzero si sarebbe comunque assicurato il vantaggio i un lunghissimo tie-break di 16 punti. Un Nole maggiormente efficace nella ribattuta, e n ei passanti, avrebbe ottenuto alfine il primo break nel terzo game del secondo set, difendendo questo vantaggio sino alla fine. Il gioco continuava ad onorare gli schemi dell’erba, con un’accentuazione degli attacchi di Roger, sino ad un nuovo tie-break, che avrebbe dato a molti, non ultimo lo scriba, l’impressione che il match stesse ormai prendendo la via di Belgrado, soprattutto perché, a quel vantaggio, ne seguiva un altro conclusivo di 5-2. Ma i conti andavano fatti con la determinazione, la lucidità tattica, la determinazione di Federer di essere simile al meglio di sé. Quasi incredibilmente ammiravamo lo svizzero in una rilucente rimonta di 5 giochi consecutivi, e di un match point annullato alla terza ora di gioco, che spingeva un pubblico delirante a immaginare un suo successo. Ma la stanchezza e l’età non erano egualmente cancellabili, e più volte un decimo di ritardo mi spingeva a segnarne il significato, sul mio taccuino. Dal 4 pari, ben 8 punti a 2 in favore del più giovane, del più fresco, avrebbero confermato i miei sospetti. E, nonostante la grande ammirazione di tutti noi presenti, Roger Federer non avrebbe conquistato il suo 18° Slam, perdendo un match memorabile. 

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